Da giorni non ho postato nulla su questo blog. Quanto avvenuto negli ultimi dieci giorni e la tempesta mediatica che si è scatenata, spesso tutt’altro che costruttiva, mi hanno fatto molto pensare. Fin dal primo momento il mio reagire è stato senza dubbio di orrore per quanto successo in Francia, ma anche di coscienza di quanto altrettanto orrendo è, dai media e quindi da tutti noi, puntualmente dimenticato – in Nigeria, Pakistan, Siria, Libia. Ma il pensiero più profondo è stato riferito ai limiti che la libertà dovrebbe avere, soprattutto quando si toccano cose, affetti, eredità particolarmente cari all’altro. E la religione, purtroppo sembrerebbe solo fuori dell’Europa, è ancora quanto di più profondo le persone hanno, un elemento della loro dignità umana.

Due esempi. In India, il Mahatma Gandhi affermava che ci sono vari modi di uccidere una persona. Il più immediato è di sparargli o accoltellarlo. Quello più profondo ed irrimediabile è di costringerlo alla conversione, perché significa tagliare le radici più profonde della sua personalità. Per questo in India ed in Asia convertire qualcuno è considerato qualcosa di incomprensibile per le culture millenarie di quel continente. In Africa, un teologo autorevole ha affermato che “Dio è là dov’è l’uomo africano’. Non so quante persone del nostro continente si sentirebbero di dire lo stesso – sia ciò che è stato affermato da Gandhi che dal pensatore dell’Africa. Qui mi pare stia un nodo importante di quanto stiamo vivendo in questi giorni. Mai come ora ho sentito l’immenso abisso che la nostra Europa ha creato fra sé ed altre culture e, quindi, altri pezzi del nostro mondo del XX e XXI secolo. Non voglio parlare di libertà, ma mi chiedo se è umana una satira che colpisce un uomo o una donna di qualsiasi parte del mondo nel più profondo del suo essere.
Ciò che, tuttavia, mi ha ulteriormente interrogato è il silenzio dei primi giorni su questo punto. Possibile che il nostro continente non sia più capace di interrogarsi? Eppure la nostra cultura nasce dalle domande di Socrate, in quel dialogo in cui il filosofo ateniese costantemente affermava di sapere di non sapere. Siamo ancora in grado di questo passo intellettuale e vitale?
N

on nascondo che una ulteriore fase confusionale è sopravvenuta con il
Je suis Charlie, detto in nome proprio di questa pseudo-libertà che non tiene conto della sensibilità degli altri. Non ho nulla di personale contro Charlie o chiunque altro, ma per principio io mi sento me stesso e, penso, proprio in nome di diritti universali di cui il nostro continente si è fatto paladino e continua a farlo a dispetto di incongruenze tragiche, di avere il diritto a non essere nessun altro di quel che sono. La paura che mi viene è la massificazione che la globalizzazione sta realizzando senza che ce ne accorgiamo e che arriva a colpire ed appiattire tutto anche in questi momenti tragici.
In questi giorni, come penso chiunque di noi, ho avuto modo di parlare con molti amici e conoscenti, cristiani ed atei, ebrei e musulmani. Ho ricevuto i pareri più diversificati su quanto accaduto in Francia, ma anche in Nigeria e Pakistan nel mese di dicembre. Mi rendo conto che ciascuno di noi, cristiano, musulmano, ebreo o anche senza una fede precisa ha qualcosa da darmi. Un’amica ebrea mi ha dato una grande lezione di umanità il giorno dopo la strage di Francia. Un amico imam mi ha scritto il suo disaccordo netto su quanto avevo scritto io in un articolo, cristiani convinti e praticanti hanno condiviso alcune mie posizioni, altri hanno dimostrato di pensarla molto diversamente.
Eppure, nonostante tutto mi sembra che la possibilità di continuare a dialogare resti l’opportunità irripetibile che ci troviamo fra le mani. Credere che nel fondo del cuore umano c’è sempre la speranza e che dipende da me e da noi riaccenderla quando minaccia di spegnersi.