Roma Capitale con il supporto di Religions for Peace Italia ODV ha avviato un'indagine conoscitiva sulla percezione odierna
relativa al rastrellamento degli Ebrei del 16 ottobre 1943 e sull'importanza del "Viaggio della Memoria.
Vi invitiamo a partecipare al questionario cliccando su
Il tema del ruolo delle donne all’interno delle liturgie delle diverse religioni è un tema molto attuale, infatti le religioni sembrano non adeguarsi alle nuove scoperte scientifiche e anzi a volte sembrano regredire per paura di perdere i propri principi tradizionali.
I cambiamenti nella vita delle donne sono stati tanti, dall’ aiuto dei “robots” domestici, alla pillola anti-concezionale, alla inseminazione artificiale, e hanno permesso loro una vita sociale molto più attiva che ha costretto i paesi più democratici a permettere loro il voto e partecipare alla vita politica della propria nazione.
I testi religiosi, rispetto ai tempi in cui sono stati composti, erano illuminati seppur redatti da uomini. Oggi bisogna trovare il modo di interpretarli diversamente e attualizzarli e ciò potrà essere fatto solo con l’aiuto delle donne che nonostante rappresentino metà dell’intera umanità spesso in questi testi ricoprono ruoli che riguardano la sfera intima e sono soggette alle decisioni maschili.
Il dibattito su questo argomento riguarda tutte le religioni e me ne occupo attivamente da alcuni anni , prima con la creazione del gruppo donne nella Consulta delle Religioni del Comune di Roma ed ora nel Coordinamento Nazionale di Religioni per la Pace ho il ruolo di coordinatrice di un gruppo di donne appartenenti a diverse fedi che con buona conoscenza dei loro testi sacri e tradizioni intendono approfondire il tema del ruolo femminile nelle religioni e del suo adeguamento ai tempi attuali in cui la parità dei sessi è una realtà nelle istituzioni laiche, nonostante le differenze e le difficoltà ancora esistenti nell’applicazione delle leggi, ma spesso non in ambito religioso.
Con il gruppo “Donne in dialogo”di Religioni per la Pace ci proponiamo di approfondire le nostre esperienze e conoscenze delle differenti tradizioni allo scopo di raggiungere un dialogo costruttivo che possa servire a individuare quale è l’origine delle preclusioni che impediscono alla donna di ricoprire ruoli che siano strategici nella società civile e religiosa.
Ci domandiamo se esiste l’equivalenza di genere che si evince al momento della Creazione. Infatti ad una attenta lettura si direbbe che le scritture esprimano meno pregiudizi e discriminazioni delle norme da esse derivanti ed imposte oggi dalle religioni. cerchiamo di analizzare più attentamente, esaminando i testi sacri e le diverse tradizioni, quale è il compito delle religioni nel riconoscere alle donne un ruolo che dia loro sicurezza, fiducia in se stesse, che crei equilibrio tra spiritualità e vita quotidiana e restituisca loro dignità, superando pregiudizi e stereotipi.
Poiché temiamo che atti violenti contro le donne possano essere anche dovuti ad una interpretazione non equilibrata delle normative religiose, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre 2014) abbiamo organizzato un convegno a Roma dal titolo “Un tetto di pergamena”- (“ Responsabilità delle religioni nel destino delle donne”), parafrasando “Il tetto di vetro” coniato dai movimenti femministi per indicare il limite, seppur invisibile, alla libertà delle donne; in questo caso il limite simbolico è la pergamena su cui sono redatti i testi sacri.
di Franca Coen
Albania, terra di dialogo e di pacifica convivenza tra le religioni. Non è una semplice constatazione, tratta da fredde statistiche. Si tratta, piuttosto, della storia di un popolo che sulle sofferenze patite nel corso dei secoli – dall’occupazione ottomana fino alla proclamazione, per legge, dell’ateismo di Stato durante il regime comunista (unico caso in tutto il mondo) – ha costruito, non senza fatica, un clima di reciproco rispetto e di collaborazione tra le diverse religioni e denominazioni cristiane. Ed è proprio questo uno degli aspetti che porterà Papa Francesco a visitare, domenica 21 settembre, il Paese delle aquile. Lo ha spiegato più volte il Pontefice da quando, lo scorso 15 giugno, ha annunciato il viaggio. Da ultimo, nell’udienza generale del 17 settembre: “Ho deciso di visitare questo Paese perché ha tanto sofferto a causa di un terribile regime ateo e ora sta realizzando una pacifica convivenza tra le sue diverse componenti religiose”. Per questo uno dei momenti principali del viaggio di Francesco sarà l’incontro con i leader di altre religioni e confessioni cristiane. Nell’attesa di questo appuntamento, abbiamo incontrato alcuni esperti per comprendere quello che può essere indicato come “un esempio” per l’Europa e il mondo intero, usando le parole di Giovanni Paolo II durante la sua storica visita al Paese nell’aprile 1993.
Un legame forte. L’Albania è un Paese in prevalenza musulmano. In assenza di statistiche certe, le stime del 2014 indicano i musulmani al 56,4%, i cattolici al 15,9%, gli ortodossi al 6,8%, i bektashi (confraternita islamica di derivazione sufi) al 2,1%, altre religioni al 5,7%, non specificato al 16,2%. Nonostante numeri così diversificati, racconta Gentiana Skura, docente di dialogo interculturale e interreligioso all’Università di Tirana, “in nessun momento della sua storia il popolo albanese ha vissuto episodi di conflitto religioso. Anche negli anni antecedenti al comunismo, la convivenza interreligiosa è stata caratterizzata da pacifica armonia. È un valore molto importante per la nostra nazione, sebbene sotto la dittatura comunista ci fosse un conflitto aperto nei confronti delle autorità religiose”. Basta pensare che “nel maggio 1967 furono distrutti 2.169 istituti religiosi, in seguito trasformati in edifici pubblici”. Senza dimenticare la feroce persecuzione verso tutto ciò che avesse anche un semplice rimando alla religione. “Questa guerra aperta – afferma Skura – fece sì che molte persone coltivassero la propria fede di nascosto. Avvenne così che svariate comunità religiose si rafforzarono e, al contempo, aumentava il rispetto reciproco tra comunità di fede diversa. La minaccia del regime comunista le rese più unite. Numerosi testi di autorità religiose cristiane e musulmane testimoniano il forte rapporto che legava le diverse comunità di fede, malgrado il rischio di morte”.
Quattro valori. Quello albanese, spiega Genard Hajdini, segretario generale del Consiglio interreligioso dell’Albania (Irca), è un vero e proprio “modello” di convivenza che poggia sostanzialmente su quattro valori “inscritti nel carattere del Paese”: “La parola data (besa), l’ospitalità e/o la generosità (mikëpritja e/o bujaria), il coraggio (trima o trimëria), la famiglia”. Questi valori “rimandano al nostro dna, alla nostra storia”: “Noi rispettiamo tutti e preghiamo perché ci sia pace nel nostro Paese e tra la nostra gente”. Ma “non solo tra noi…”. Ciò vale anche per l’ospite, per lo straniero: “Noi lo chiamiamo miku (amico di famiglia); lo proteggiamo da chiunque, così come abbiamo protetto gli ebrei nella seconda guerra mondiale: nessuno di loro è stato ucciso o arrestato in Albania per essere consegnato ai nazisti”. Sintesi di tutto ciò è lo slogan che accompagna anche le attività dell’Irca: “Far festa alle persone”, secondo il “comandamento dell’amore” che insegna ad “amare Dio e il prossimo come se stessi”. I diversi leader religiosi, spiega ancora il segretario generale, “in modo sincero, si stringono la mano, si sorridono e si fanno visita durante le rispettive festività”.
Il messaggio fondamentale. Il fatto che ci siano dialogo e convivenza pacifica, riflette Altin Hysi, segretario generale della Società biblica interconfessionale dell’Albania, “non significa che non vi siano differenze tra le varie religioni o tra le diverse denominazioni confessionali”. Tuttavia, “per diversi motivi”, queste differenze “non sono state fonte di conflitto all’interno del popolo. La popolazione ha trovato il modo di vivere e lavorare insieme a prescindere dalla religione o dalla denominazione religiosa di appartenenza. Sebbene appartengano a religioni diverse, gli albanesi hanno sempre percepito la necessità di lavorare e operare congiuntamente, per esistere in quanto popolo e nazione”. Secondo Hysi, “un importante fattore di questa armonia religiosa è probabilmente il fatto che nelle famiglie albanesi i genitori non crescono i propri figli educandoli a differenze di natura religiosa. Questo è un gran merito dei genitori albanesi. Il messaggio fondamentale è che è possibile essere diversi e non combattersi a vicenda”. Sta forse qui il segreto dell’Albania, terra di dialogo e di pacifica convivenza.
dall’inviato Sir a Tirana, Vincenzo Corrado
Fonte: Agensir.it
Vi proponiamo il discorso pronunciato da don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della CEI, lo scorso 15 settembre al convegno “Il Dialogo tra le civiltà. Mediazione Interreligiosa e Interculturale”, organizzato dalla COREIS .
Illustri, onorevoli e gentili Signore e Signori, cari amici, cari fratelli,
un saluto cordialissimo a tutti voi da parte della Conferenza Episcopale Italiana, che ho l’onore di rap-presentare, e da parte mia personale. È motivo di gioia e di onore essere qui oggi con voi e ringrazio di cuore la COREIS soprattutto, ma non solo, nella persona del suo vicepresidente, imam Pallavicini, per aver voluto riservare un posto anche per me. Grazie di cuore!
Alcuni anni fa, nel 2011, è uscito un saggio di un pensatore cristiano appassionato di dialogo tra le fe-di, che come titolo porta un interrogativo molto provocatorio: Il dialogo è finito? Si tratta indubbia-mente di una provocazione, con il chiaro intento di far riflettere e di cercare appigli per poter dare una risposta positiva: per poter dire “no, il dialogo non è finito!”. Eppure, se siamo onesti, sono molti i se-gnali che vorrebbero listare a lutto le stanze del dialogo tra le religioni e forse anche quelle del dialogo interno a ciascuna fede o espressione religiosa, specialmente quando questa conosce aspetti e declina-zioni variegate (come indubbiamente l’islam e il cristianesimo). Sto pensando per esempio al momento in cui la religione viene strumentalizzata ad arte e indicata come la causa prima di guerre e di scontri. Sto pensando al preoccupante dilagare della paura dell’altro, quando questo è visto come potenziale distruttore di diritti e di sicurezze. Sto pensando anche a quella bieca suddivisione del mondo in ca-tegorie, come i buoni e i cattivi, i comunitari e gli extracomunitari, i bianchi e i neri; suddivisione che porta con sé come conseguenza una grave leggerezza di giudizio, che salva o condanna ogni uomo in base alla sua cultura e alla sua provenienza, e che sfocia quindi in una pericolosa generalizzazione, che vorrebbe ridurre gli individui a una massa omogenea e più facile da manipolare. E infine sto pensando a un sentimento che bene o male ci riguarda tutti, almeno potenzialmente: a quella che definirei come rassegnazione ad uno status quo di contrasti e di reciproche indifferenze; ho l’impressione che spesso si insinui nei nostri cuori questa rassegnazione nei confronti di ciò che non si può (o non si vuole?…) cambiare. Segnali, tutti questi e molti altri ancora, che davvero potrebbero far pensare che il dialogo sia finito; o che almeno soffra gravemente e che sia incapace di riprendere forza.
Se tutto questo è vero – e onestamente mi pare proprio che lo sia – non stupisce che da più parti ci si chieda se una prospettiva universalistica dell’umanità sia davvero utile, opportuna e necessaria. Mi sembra che siano davvero molte le voci che parlano contro ogni tipo di legame o di intesa tra i popoli e le religioni; argomenti, questi, davanti ai quali molti scuotono semplicemente la testa. In ogni caso la convinzione che il dialogo sia possibile, oltre che necessario, fatica a farsi strada: chiusure identitarie, localismi, etnocentrismi e nazionalismi esasperati costruiscono barriere difficili da abbattere. Sembra quasi che sia stata stipulata una sorta di alleanza tra radicalismi; alleanza che blocca ogni tentativo di costruire futuro. Non a caso di fronte a certi scenari si parla di situazioni che rimandano al Medioevo più buio. Quando invece il Medioevo è stato tutt’altro che buio…
Ora, cari amici – ma permettetemi di dire: cari fratelli! – di fronte a un quadro di questo tipo, che, in-sisto, non mi pare affatto esagerato, anche in noi si vorrebbe insinuare una tentazione dannosissima: e cioè quella di tacere. Scenari e prospettive da morte del dialogo gridano effettivamente più forte di noi: e noi così rischiamo di pensare di non avere altra scelta che quella del silenzio. Di un silenzio, però, non attonito: questo ci sta, nel senso che la constatazione dei drammi di cui l’uomo è così spesso vittima lascia indubbiamente in un silenzio attonito. Ma c’è un’altra forma di silenzio, un silenzio che viene deliberatamente scelto, e che traduce una dichiarazione di impotenza. È il silenzio di chi sta a guardare, o si limita ad incrociare le dita affinché i drammi di cui viene a conoscenza non arrivino a turbare la sua quiete privata. Ma sia detto con chiarezza: l’uomo che tace e che si convince che ogni forma di dialogo sia irrimediabilmente perduta, rischia di farsi complice di quel nichilismo che si na-sconde nelle nostre società: un nichilismo esistenziale, che denuncia una profonda incapacità di pen-siero e che non ammette nessuna reazione, se non quella dettata dalla forza e che quindi è senza via di scampo.
Io mi chiedo però se siamo davvero condannati ad essere spettatori impotenti di tragedie irreversibili. Davanti ai drammi che vorrebbero ammazzare ogni possibilità di incontro tra le culture e le fedi, drammi che sono sotto gli occhi di tutti in questi ultimi mesi, ma anche di fronte ad ogni tentativo di eutanasia nei confronti del dialogo schietto e costruttivo, quel dialogo a cui viene negata la possibilità di vita semplicemente perché definito inutile o utopistico, di fronte a tutto questo, cari fratelli, siamo davvero condannati al silenzio impotente e rassegnato? O più precisamente: chi vorrebbe condannarci ad essere spettatori impossibilitati ad agire? Spettatori che al massimo possono indignarsi, alzare la voce, e tornare così nella propria apatia, facendo scongiuri affinché certi scenari non divengano troppo vicini?
A obbligarci a rimanere chiusi in questa forma di apatia esistenziale, a convincerci della presunta irre-versibilità dello status quo e della inevitabilità di quello scontro di civiltà di cui troppi parlano, a tenerci incatenati a questa falsa convinzione sono almeno due “movimenti sotterranei”:
– da una parte la assurda abitudine di parlare del Medio Oriente, e non solo di questo, come di un terreno attraversato da confini etnico-religiosi; falsando in questo modo la storia e nascondendo numerosi esempi di collaborazione e di civiltà di cui invece il Medio Oriente e ogni regione del pianeta è testimone: abitudine, questa, che ha l’unico risultato di consolidare la contrapposizione, e di farla diventare un sistema di vita;
– dall’altra parte una grande responsabilità nella affermazione di questa apatica rassegnazione di cui siamo vittima sta nella voce di coloro che persistono nel parlare di guerra di religione. E non si ac-corgono, o forse non vogliono accorgersi, che la violenza non ha nulla a che fare con nessuna fede e con nessuna religione. È vero, qualcuno ha elevato a sistema il connubio tra la propria religione e l’uso della forza, portando alla deriva certi testi sacri che pur sembrano benedire la guerra; e questo vale anche per la tradizione ebraico-cristiana. Ma questi uomini religiosi forse non capiscono la gravità di quella che non esito a chiamare falsificazione: l’ingiustizia che si commette di fronte al testo sacro, quando si isola una frase dal contesto con la pretesa di usarla per fini che non sono quelli della ri-velazione divina. Le rivelazioni monoteiste infatti ci parlano di un Dio creatore, e la rivelazione ebraica afferma addirittura che questo Dio creatore forma l’uomo, creatura, a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26); in realtà però avviene troppo spesso il contrario, quando l’uomo pretende di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza: e così lo sfigura, lo ridicolizza e lo trasforma in un idolo.
“Movimenti sotterranei” di fronte ai quali vale sempre il principio della verifica e dell’autocritica: principio che davvero riguarda me per primo, e noi, anche come Chiesa, intesa nel suo senso più ampio e pur con la consapevolezza che poi non è giusto generalizzare. Eppure tutto ciò, quindi riassumendo il voler attribuire a cause di natura religiosa la responsabilità dei conflitti e delle separazioni, tutto ciò mi pare vorrebbe semplicemente incatenarci tutti al silenzio e dichiarare una evidente regressione culturale e antropologica: come a dire, l’uomo religioso è incapace di progresso.
Di fronte a tutto questo, cari fratelli, quale può essere il nostro atteggiamento? O meglio: cosa si aspet-ta l’umanità da noi, dagli uomini di fede, da coloro che invocano con sincerità e umiltà il nome di Dio, indipendentemente dalla lingua e dai modi di cui si servono per invocarlo?
Innanzitutto, io credo, dovremmo capire che tacere equivale ad allinearsi: allinearsi alla rassegnazione diffusa, allinearsi e anche allearsi con chi ha dichiarato morta ogni forma di dialogo. E invece va detto che in certe regioni del mondo musulmani e cristiani vivono da sempre gli uni accanto agli altri, co-struendo una civiltà della convivialità; va detto con forza che la possibilità di dialogo è tutt’altro che morta: può aver bisogno di un ricostituente, ma non di un becchino; e soprattutto va detto con deter-minazione che non c’è assolutamente in corso nessuno scontro tra islam e cristianesimo, e allargando lo sguardo, nessuna religione in quanto tale è in guerra con un’altra.
Son convinto che a noi spetti ribadire continuamente questo dato di fatto: a costo di essere derisi, non capiti, non creduti. È questo il nostro “martirio”, cioè la nostra testimonianza più grande e più incisiva per il tempo in cui viviamo. Ed è l’uomo stesso che ci chiede questa testimonianza e questa coerenza, pur senza rendersene conto tante volte: l’uomo che soffre e che ha bisogno e diritto ad un futuro più stabile.
Credere ostinatamente nel dialogo, credere nella presenza (numerosa!) di uomini e donne che sanno essere fratelli e sorelle: questa è la nostra missione, la nostra vocazione, come uomini di fede. Ma direi, come uomini, in senso assoluto: perché a distruggere il dialogo ne va dell’umanità.
Allora non possiamo cedere a chi vorrebbe manipolare i cervelli e i cuori e farci credere che tanto è tutto inutile e che l’uomo non riuscirà mai a dialogare con l’uomo: non possiamo cedere a queste sirene che nulla hanno di attraente. Come non possiamo cedere a tutta quella serie di forze politiche ed economiche, di cui forse mai verremo a sapere tutte le trame diaboliche, forze che hanno come fine soltanto la disgregazione della società internazionale, in nome di interessi colossali che chiaramente vanno a beneficio di pochissimi mercanti di morte.
No, in nome di Dio Clemente e Compassionevole noi dobbiamo piuttosto continuare ad unire le voci, gli sforzi, i cuori; ma ancora di più dobbiamo unire le mani: ostinarci cioè a cercare forme di collabo-razione concreta, anche tra noi che siamo qui oggi, perché ci si possa accorgere che è possibile uno stile diverso: uno stile di collaborazione, di incontro, di dialogo.
Perché il dialogo non è finito! Quando fosse finito il dialogo, sarebbe finita l’umanità!
Vorrei terminare, cari fratelli, con alcune espressioni che fanno parte, sì, del bagaglio della liturgia cattolica, ma che nel loro significato più profondo credo possano essere condivise da tutti noi. E chi lo vorrà, potrà trasformarle in preghiera.
Riconosciamo il tuo amore, Dio misericordioso,
quando pieghi la durezza dell’uomo,
e in un mondo lacerato da lotte e discordie lo rendi disponibile alla riconciliazione.
Tu agisci con la tua forza nell’intimo dei cuori,
perché i nemici si aprano al dialogo,
gli avversari si stringano la mano e i popoli si incontrino nella concordia.
Per tuo dono, Dio misericordioso, la ricerca sincera della pace estingue le contese,
l’amore vince l’odio e la vendetta è disarmata dal perdono.
Il Dio Clemente e Compassionevole in cui crediamo possa aiutarci a fare di tutto per tradurre queste parole nella concretezza.
Grazie di cuore!